lunedì 28 dicembre 2015

LUOGHI DELL'ANIMA...


Non dite: “Ho trovato la verità”, ma piuttosto “Ho trovato una verità”.
Non dite: “Ho trovato il sentiero dell’anima”, ma piuttosto, “Ho incontrato l’anima in cammino sul mio sentiero”.
Poiché l’anima cammina su tutti i sentieri.
L’anima non procede in linea retta, e neppure cresce come una canna.

L’anima si schiude, come un fiore di loto dagli innumerevoli petali. (Kalhil Gibran)

Ci sono luoghi dove vorresti tornare sempre. Può essere un angolo della casa, una città dall’altra parte del mondo o quel luogo disegnato da due braccia attorno alle quali vorresti stringerti forte. Spesso non conta la collocazione geografica per assaporare il gusto morbido e carezzevole che può regalare quel momento di perfetta fusione tra il proprio sé che si vede in superficie e quello che si sente nel profondo.
Mi riferisco a quello stato dell’essere che ognuno di noi sa di poter raggiungere soltanto in quel posto preciso. Lì siamo liberi, felici incondizionatamente; quando sentiamo di essere proprio lì dove vorremmo trovarci, non distratti, non protesi altrove.
Più che un luogo fisico, raggiungiamo un luogo dell’anima. Un allineamento tra il tempo, il luogo e il proprio abbandono.
Il bimbo che si stringe al seno della madre sente che quello è il suo luogo, il posto dove vive la sua pace.
Il viaggiatore solitario la può ritrovare osservando e penetrando il cielo dalla cima di una montagna o l’orizzonte oltre la linea del mare o le onde spumose dell’oceano o ascoltando il silenzio di una notte estiva rotto dal frinire delle cicale.
Un musicista di strada la può conquistare liberando le sue note blues tra i rumori metropolitani di New York.
Uno scrittore la può percepire sotto le sue dita nel momento stesso in cui riceve la visita improvvisa di un’ispirazione inattesa. Prende carta e penna, scrive e in quelle pagine trova conforto, la sua quiete.
Il pittore costruisce mille luoghi dell’anima con le sue pennellate; in ognuno di essi c’è un pezzo di sé.
Un genitore spesso assente che in un pomeriggio d’autunno  ritaglia un’ora del suo tempo dal suo planning lavorativo e si ritrova ad attendere il suo bimbo all’uscita di una scuola, vedrà ripristinare il senso delle cose da quel sorriso innocente che celebra la sua presenza. In quel momento, lì, davanti a quel cancello, uno di noi vivrà un momento di pienezza...i suoi piedi, avvezzi a calpestare con forza luoghi fisici, avvertiranno la leggerezza che può donare un luogo dell’anima.
Ci sono momenti in cui non conta più il mondo esterno, visibile, reale; spazi senza tempo e senza luogo in cui ci si guarda dentro e ci si riappropria del vero sé.
E allora, come se fossimo dietro una cascata, osserviamo scorrere il flusso dei nostri pensieri. Questi non ci sommergono più, lasciandoci stanchi, naufraghi e bagnati. E’ uno scorrimento calmo. Lento. Aperto alle opportunità. Possiamo decidere di rimanere fermi dietro la cascata  o di lasciarci raggiungere da qualche schizzo di acqua o di immergerci per affrontare le rapide, abbandonandoci al flusso della nostra vita. In ogni caso, vivremo con consapevolezza le opportunità scoperte o riscoperte grazie al nostro luogo dell’anima. 


Acqua, terra, montagne, vento, movimento
La ricetta di oggi allieterà il vostro palato, in qualunque luogo dell’anima deciderete di assaporarla…una torta morbida e croccante allo stesso tempo.

Torta simil sbrisolona vegan

Ingredienti per la pasta:
70 g di olio di mais
100 g di zucchero di canna Dulcita
250 g di farina di semi o integrale
60 g di farina di grano saraceno
½  cucchiaino di bicarbonato
50 g di latte vegetale
1 pizzico di sale
Uvetta passa (o pezzetti di cioccolato fondente)
Ingredienti per la crema:
100 g nocciole tostate
50 g di cacao
80 g di zucchero di canna Dulcita
100 ml latte vegetale
2 cucchiai olio di mais


Procedimento:

Per la crema frullate nel mixer le nocciole fino a ridurle a crema, poi unire gli altri ingredienti fino ad ottenere una crema il più liscia possibile. Tenete da parte.
Per la pasta mescolate in una ciotola l’olio, il latte vegetale, lo zucchero, le farine, l’uvetta passa o pezzetti di cioccolato fondente, il bicarbonato e il sale. Si otterrà un impasto piuttosto “sbricioloso”, non compatto. Rivestite uno stampo da crostata di 20 cm di diametro con carta da forno e versate sul fondo metà delle briciole, livellatele con un cucchiaio e ricoprire con tutta la crema alle nocciole. Sopra mettete le briciole di pasta rimanenti senza schiacciare troppo. Infornata e a 180° per 40 minuti circa, comunque fino a leggera doratura. 
Spolverizzate con zucchero a velo.




Dettaglio












martedì 22 dicembre 2015

...IL NATALE CHE MI TENTA...


"Priva di ricchezze materiali
Un pezzetto della mia anima
A te vorrei donare…
Non un oggetto che il tempo può usurare,
né un orpello del cui uso ti potresti stancare;
non un indumento che con il tuo gusto si potrebbe scontrare,
né un gioiello la cui esibizione potrebbe accecare;
ma un semplice pensiero…
un’idea da inserire tra le note dei tuoi pensieri
e da tessere tra i fili dei tuoi desideri…
un pensiero che parla di SERENITA’…
quel bene prezioso, ideale eppur bistrattato
che non ha un prezzo
non ha un costo
non ha contorni precisi
né motivi concreti,
ma che il nostro cuore sa ben riconoscere
quando dal niente
fa sorgere un sorriso…"

BUON NATALE!!!! 

Le luci del Natale a Como

Per la ricetta prima di Natale, vi suggerisco un dolce golosissimo…sempre vegan che può degnamente sostituire panettoni e pandori quando di questi, dopo i vari brindisi, non ne potete più
;-)

Tentazione al cioccolato e arancia

Ingredienti
250g di farine (kamutt, integrale, di farro e 2 cucchiai di fecola di patate)
120g di zucchero di canna
2 cucchiai di cacao amaro in polvere 
70g di olio di semi
80g di cioccolato fondente 
250 ml (circa) di latte di riso o di soia (io ho usato quello aromatizzato alla vaniglia)
Scorza grattugiata di 1 arancia grande 
1 cucchiaino di bicarbonato
1 cucchiaino di aceto di mele

Procedimento:
Fate fondere a bagnomaria il cioccolato fondente.
In una ciotola setacciate insieme il cacao, la farina e lo zucchero. Grattugiate la scorza d’arancia e unitela alle polveri.
Unite un cucchiaino di bicarbonato sul quale verserete un cucchiaino di aceto di mele.
Quindi versate anche l’olio, il cioccolato fuso e il latte, aggiungendolo poco alla volta e mescolando bene.
Infine e infornate a 180° (meglio ventilato) per circa 40-45 minuti circa. Prova stecchino prima di spegnere.

Per la glassa: sciogliete a bagnomaria una tavoletta di cioccolato fondente con un filo di latte di riso e un filo di olio; versate sulla torta raffreddata. Fatela addensare poi a temperatura ambiente o in frigorifero.






mercoledì 25 novembre 2015

IL MALE...SUL CAMMINO DELL'UOMO...

Il fuoco deve scaldare non spegnere speranze
L’eco delle bombe e degli spari risuona in vallate rese aride dall’odio; nuvole di fumo si alzano dalla terra arsa; carcasse di ferro, palazzi distrutti, sirene lancinanti, lacrime, il dolore che deforma i volti di chi urla e che fa voltare per lo sdegno noi, spettatori inermi di tale scempio, che non abbiamo quasi il coraggio di capire, e cambiamo canale…
Questo è il male che veste di morte ogni cosa che incontra.
Questo è il quadro dipinto col sangue di uomini da altri uomini che hanno perso la loro umanità lungo quel cammino lastricato da prevaricazione e violenza.
E mentre politici di ogni schieramento e personaggi illustri di ogni orientamento si interrogano, incravattati attorno a tavoli di cristallo, davanti a microfoni aperti sul mondo e confortati da bottiglie di acqua minerale, sulle strategie da adottare per trovare una qualche ragionevole soluzione a questa apocalisse, altri uomini, armati di kalashnikov o muniti di qualche telecomando diabolico, mandano all’aria quotidianamente, in angoli spesso ignorati anche dalle cartine geografiche (o geopolitiche), propositi, buon senso e quelle briciole di umanità rimaste sul fondo delle tasche del mondo.
Ma quale rispetto della vita altrui ci si può aspettare da chi non ha rispetto nemmeno della propria vita?
Ovunque ci sono focolai di questa cattiveria: Paesi coinvolti in guerre, regioni e province autonome che lottano per l’indipendenza, gruppi ribelli che alterano equilibri o disequilibri che alimentano gruppi ribelli.
E’ il trapasso verso l’inferno? E’ il prezzo dell’impotenza davanti alla cattiveria umana che spesso può addirittura contare su mezzi, armi e lasciapassare, concessi e talvolta forniti sotto banchi sporchi e di ipocrita ignoranza?
La tentazione di cedere allo sconforto, alla rassegnazione passiva, alla disperazione, alla paura e all’angoscia è umana.
Ma a contrasto netto e dissonante con le barbarie di ogni tempo e di ogni luogo, mi metto davanti agli occhi il precetto della strofa didattica di Gajarati che fu il principio guida di Gandhi con l’aspirazione che dagli occhi possa penetrare nel mio spirito ancora così poco evoluto per non cedere a pensieri che mi trascinerebbero verso territori inquinati da quella stessa violenza e vendetta che mi ripugna:

“Per una scodella d’acqua,
rendi un pasto abbondante;
per un saluto gentile,
prostrati a terra con zelo;
per un semplice soldo,
ripaga con oro;
se ti salvano la vita,
non risparmiare la tua.

Così parole e azione del saggio riverisci;
per ogni piccolo servizio,
dà un compenso dieci volte maggiore.

Chi è davvero nobile,
conosce tutti come uno solo
e rende con gioia bene per male”.
(M.K.Gandhi, L’Arte di Vivere).

I panorami che vorremmo sempre vedere

Davanti a discorsi del genere, la fame passa. Ma questo è pur sempre un blog di cucina e allora lascio la penna e i pensieri pesanti sul tavolo e inforco posate e padelle per presentarvi la ricetta leggera di oggi.

Crema di zucca e patate con nocciole e aceto balsamico


Ingredienti:
-       zucca
-       patate
-       olio, sale, rosmarino
-       qualche nocciola
-       aceto balsamico

Preparazione:
Lessate le patate. Tagliate a pezzi la zucca e fatela cuocere in un tegame (col coperchio) con olio, sale, rosmarino e poca acqua.
Quando le patate e la zucca saranno cotte, frullatele insieme e amalgamate per bene e a fuoco basso eventualmente aggiungendo: a) un filo di latte di riso (o di acqua) se è troppo densa; b) un cucchiaio di fecola di patate se è troppo liquida.
Servite la crema di zucca e patate decorando con qualche nocciola spezzettata e un filo di aceto balsamico.




lunedì 9 novembre 2015

"ALASKA"

Locandina del film
“Quest’orrore della solitudine, questo bisogno di dimenticare il proprio io nella carne esteriore, l’uomo lo chiama nobilmente bisogno d’amare” (C. Baudelaire).

Il titolo dell’ultimo film di Claudio Cupellini, “Alaska”, una coproduzione italo-francese che vede protagonisti i bravissimi Elio Germano e Astrid Berges-Frisbey, ci trasporta come suggestione nelle lande ghiacciate non dell’omonimo territorio geografico, bensì in quelle che si formano sulla superficie di certe anime che, disperatamente sole, non possono che attraversare la vita arrancando come “morti di fame” (fame di vita), resi superstiti da una sorta di glaciazione che la vita e il destino gli hanno riservato.
Nadine è una modella svogliata che sta partecipando ad un casting in un hotel di lusso di Parigi, lo stesso albergo dove lavora come cameriere Fausto, un italiano che sogna di fare fortuna. I due si incontrano sulla terrazza dell’albergo davanti ai tetti di Parigi e si attraggono come calamite, non sapendo niente l’uno dell’altra, accomunati soltanto dal fatto di essere soli al mondo, fragili e ossessionati dall’idea di dover riscattare le loro vite. Il film non ci dice nulla del loro passato, ma ci fa intuire che i due, pur giovanissimi, sono già consumati dalla tristezza e dalla solitudine. Si cadono addosso per non cadere nei loro abissi individuali.
Neanche il tempo di scambiarsi un bacio e vivono la prima grande disavventura. Questa, a dispetto delle circostanze, anziché dividerli, li unirà come un collante ineluttabile. Il loro stare insieme è segnato subito dalla tragedia, presagio di un cammino lastricato dalla sofferenza e dal dolore; tuttavia sembra anche essere l’unico scopo della loro vita. Nadine e Fausto si seguono e si inseguono, influenzandosi a vicenda e a fasi alterne in maniera deleteria, anche a distanza di tempo e di spazio, passando attraverso galere, ospedali, notti all’Alaska, locale che Fausto apre in società con un altro povero affamato di vita, Sandro (Valerio Binasco), sogni infranti e crimini efferati.
Tutti i personaggi che hanno la sfortuna di incappare lungo il cammino di Fausto o di Nadine sembrano in realtà marionette al cospetto della follia che si nutre dei loro sogni: quello di lui di fare soldi, quello di lei di trovare uno scopo. Ogni volta che uno dei due sta per riprendere in mano la sua mano, compare l’altro a rimischiare le carte, creando liti, confusione e guai. Persino i reati più gravi sembrano diventare per loro gesti inevitabili, una sorta di prezzo da pagare per tentare di conquistarsi un’occasione.
Film tosto, l’ho trovato più la storia di una folle ossessione che di un amore folle.
Un film sull’inevitabile sciagura a cui vanno incontro due anime scheggiate che quasi pretendono l’uno dall’altra l’antidoto in grado di sciogliere il loro ghiaccio interiore; si scelgono non tanto per condividere il presente che entrambi sfiorano appena senza sentirsi mai pienamente parti attive, ma per poter delegare ad un ipotetico futuro la compensazione dei loro vuoti esistenziali.
Vi lascio segnalandovi la ricetta di un dolce che vi farà senz’altro riprendere dai vuoti del film…


Plum cake vegan al grano saraceno, mela e cannella 
Ingredienti:

-       250 gr di farina (mix tra farro e grano saraceno)
-       80 gr di zucchero di canna
-       ½ bustina di lievito bio per dolci
-       un pizzico di vaniglia
-       30 ml di olio di mais
-       125 ml circa di latte di riso (o un latte vegetale a scelta)
-       1 bustina di preparato bio “Senza uovo” (io l’ho trovato in erboristeria. È un mix di farina di ceci, amido di mais e farina di semi di carrube in grado di donare la giusta consistenza ai dolci vegani)
-       cannella in polvere
-       1 mela rossa
-       Semi di papavero

Preparazione
Innanzitutto occorre sciogliere il contenuto della bustina “Senza uovo” in 70 ml di acqua a temperatura ambiente. Poi aggiungete anche l’olio e il latte vegetale. Tenete da parte.
Riunite in una ciotola la farina, lo zucchero, la vaniglia, il lievito e la cannella.
Amalgamate questo composto con i liquidi e da ultimo aggiungete la mela tagliata a dadini molto piccoli. Otterrete un impasto piuttosto denso (nel caso sia eccessivamente denso, potete aggiungere un altro po’ di latte).
Versate in uno stampo da plumcake, spargete un po’ di semi di papavero sulla superficie e cuocete a forno caldo a 180^ per circa 30 minuti.





  


mercoledì 4 novembre 2015

IO CHE AMO SOLO TE

Locandina del film
C’è tanta Puglia nel nuovo film di Marco Ponti “Io che Amo solo te”: le sue spiagge, il suo mare, le costruzioni bianche di pietra e il vento di maestrale che quando arriva è in grado di scompigliare capelli, programmi, pensieri e desideri.
Il mare di Puglia
Ci sono gli scorci suggestivi di Polignano a Mare dove il blu del mare, del cielo e i colori in generale sembrano più vividi a contrasto con il bianco crema delle sue case e dei suoi scogli.
Un film dove a farla da padrona, con la “scusa” narrativa della organizzazione e della celebrazione del matrimonio dei due protagonisti, Damiamo e Chiara, interpretati da Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti, sono quelle verità scomode che la maggior parte dei personaggi tiene ben nascoste sotto strati e strati di ipocrita discrezione o di malcelata accondiscendenza alle aspettative altrui.
Il film ci spinge, attraverso la rappresentazione, a volte ai limiti del parodistico*, della reazione a catena di impulsi emotivi e di istinti immediati che può innescarsi dal perpetuarsi delle menzogne e dalla negazione costante del proprio io e dell’altrui sentire, a riflettere sul valore dell’autenticità, sia essa familiare, individuale o sociale e su quanta libertà spesso neghiamo a noi stessi e a chi vogliamo bene con la scusa di non cadere vittime del pregiudizio della gente senza considerare che se noi per primi neghiamo certe verità, allora nessuno sarà mai in grado di emancipare noi (e per riflesso l’umanità) dalle spire di un certo perbenismo che si nutre dei più arcaici luoghi comuni e di falso moralismo. 
La sfida e il fulcro che personalmente ho voluto percepire nel racconto, infarcito di ansie, tensioni, rancori, nostalgie, malinconie, ma anche di speranze, sentimenti veri e riscatto, è la proiezione nel vero dei due protagonisti che, messi alla prova dai tranelli orditi dalle loro paure e dalle altrui interferenze, sono chiamati, a riscattare, oltre al proprio, anche un altro Amore, mai tramontato, quello tra la madre di lei e il padre di lui che trent’anni prima fu sacrificato per mancanza di coraggio nell’andare contro un certo perbenismo di paese.
I tempi sono maturi, nella Puglia di oggi (o ci si potrebbe chiedere in qualsiasi angolo del nostro Paese) per andare contro il chiacchiericcio facile, il pettegolezzo, il pregiudizio, le chiusure mentali?
La risposta pare emergere dalla superficie agitata del mare o dai folti e intricati rami di ulivi secolari: ogni storia va come deve andare, come è giusto che sia affinché ognuno abbia diritto, oggi, come ieri e domani, alla sua ventata di felicità autentica.   

* …come parodistico, spesso, è l’approccio chiuso e ristretto alla realtà da parte di chi rifiuta i cambiamenti e l’evoluzione sociale…

A proposito di coraggio e di azzardo, oggi vi propongo una ricetta adatta solo a chi riesce ad andare oltre, anche in cucina, agli abbinamenti tradizionali…

Risotto ai cachi 
Ingredienti: (le dosi dipendono dalla portata. Queste sono per 2)

- 140 gr circa riso
-       2 cachi piccoli morbidi
-       brodo vegetale
-       olio, sale, rosmarino
-       semi di sesamo e papavero
-       un pezzetto di cipolla (lasciata “in ammollo” a filetti in un filo di latte vegetale)
-       salsa di soia

Come prima cosa preparatevi e tenete da parte 400 ml circa di brodo vegetale.
Frullate i due cachi aggiungendo un filo di salsa di soia.
In un tegame versate 2 cucchiai di olio, aggiungete il riso e fate tostare. Poi man mano aggiungete il brodo vegetale e portate il riso a cottura.
A parte fate rosolate i filetti di cipolla nello stesso latte in cui li avete lasciate a macerare. Aggiungete i cachi frullati, qualche ago di rosmarino, due cucchiai di brodo e fate cuocere per 5 minuti circa.
Quasi a cottura ultimata del riso aggiungete la purea di cachi e mantecate.
Servite il riso decorando con semi di sesamo e papavero.
I non vegani lo apprezzeranno di più con una spolverata di parmigiano, facilmente sostituibile con un cucchiaio di formaggio cremoso veg o una spolverata di gomasio*.

* per gomasio leggi qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Gomasio








  


lunedì 26 ottobre 2015

UNA SUBURRA...CAPITALE

Locandina del film 
Una “Sodoma e Gomorra” dei tempi odierni la Roma che purtroppo, a sfregio delle sue bellezze artistiche e naturali, fa da palcoscenico alla rappresentazione cinematografica di “Suburra”, noir diretto da Stefano Sollima, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo.
Un film magistrale, o meglio, di aspirazione magistrale scritto da Stefano Rulli e Sandro Petraglia e magnificamente interpretato, tra gli altri, da Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi e Greta Scarano.  Avvertenza per la visione del film: indurire lo stomaco prima di sprofondare in poltrona negli abissi del male. Questi i dati oggettivi.
Quanto, invece, alle note soggettive, personalmente reputo non solo i protagonisti, ma tutti i personaggi del film veri, crudi, esasperati, credibili.
L’unica piccola riserva sento di farla all’interpretazione di Claudio Amendola, che risulta meno bruta, rude e spietata di quanto ci si poteva aspettare dal suo personaggio.
Per il resto, non ci viene risparmiato nulla della rappresentazione della brutalità di cui l’essere umano può essere capace quando soldi, potere, sesso, vizio e bramosia diventano le uniche variabili di un’equazione impazzita.
VITA : MORTE = MALAFFARE : BARBARIE
Sullo sfondo di una Roma battuta da una pioggia scrosciante e nell’arco temporale dei primi dieci giorni del mese di Novembre 2011 è in corso un’apocalisse che investe tutti i palazzi del potere e delle istituzioni  e che mette gli uni contro gli altri uomini, interessi e bande rivali.
Scorre il sangue sulle strade battute dal malaffare, si consumano vendette atroci all’interno di gruppi dove l’unica legge riconosciuta è quella del più potente.
Dentro lo sguardo (stupefacente) di Favino, politico corrotto avvezzo a sesso, eroina e voti di scambio, c’è riflessa tutta la gamma di “Grandi Bruttezze” raccontante nel film: corruzione, ricatti, deliri di onnipotenza, ingordigia, malvagità, vendette senza scrupoli.
Nel film ci sono corpi sciupati, consumati dalla droga e dagli eccessi; espressioni allucinate; occhi abbacinati; ci sono le braccia armate di un mostro potente che uccide senza scrupoli; ci sono uomini deboli che si fanno corrompere e uomini forti che si credono onnipotenti; ci sono corpi venduti, anime acquistate come merce e sagome senza corpo e senza spirito usate come marionette da un sistema che tutto ingoia; ci sono inseguimenti, sparatorie, esecuzioni capitali. C’è poi la testa di quel medesimo mostro che possiamo immaginare stretta tra le mani laide di personaggi ben vestiti che si limitano a passare carte, voti o soldi e che, dall’alto di una insospettabilità a dire il vero sempre più evanescente, decretano comunque, con la loro scempiaggine e la loro intemperanza, sentenze di morte senza possibilità di appello.
Ci sono le gabbie, quelle vere, dove per esempio un cattivo può tenere in cattività un bulldog ignaro della legge del contrappasso o dove una tossica può rifugiarsi in un disperato tentativo di trovare una via di scampo e quelle simboliche, dove sedimenta la bestialità umana; le prigioni che scaturiscono da sentirsi sempre in affanno per la spasmodica ricerca di un cibo che, in verità, lascia sempre affamati e delusi.
La trama si snoda nell’oscurità solitaria di strade cittadine, negli accecanti e frequentati luoghi urbani della capitale e lungo le spiagge di Ostia, quel lungomare destinato a diventare, nelle aspirazioni della malavita locale, una specie di Las Vegas dell’abusivismo e del riciclaggio e che diventa perciò la rappresentazione simbolica della desolazione derivante dalla cupidigia umana.     
  
Un film che lascia sicuramente l’amaro in bocca ed in quel sapore c’è tutto il suo spietato realismo, il disegno impressionista del suo regista.
Forse c’è qualche buco nella trama (qualche mancato epilogo, qualche intuizione un po’ forzata, qualche coincidenza un po’ troppo fortuita), che, tuttavia, non inficia l’impatto complessivo della struttura narrativa.

Dopo un film così duro e amaro, dopo essere sprofondati negli abissi più oscuri della malavita, non posso che proporre, per compensazione, una ricetta dolce, morbida e golosa che riuscirà sicuramente a far riprendere quota almeno alle vostre papille gustative.

Torta vegan al cacao, cioccolato e pere


Ingredienti:
- 200 gr farina di farro integrale
- 100 gr farina di castagne
- 50 gr cacao amaro in polvere
- 120 gr zucchero di canna
- 350 ml latte di soia (o di riso) al cioccolato
- 1 cucchiaino di bicarbonato di sodio ad uso alimentare
- 1 cucchiaino di aceto di mele
- 2 cucchiai di olio di semi di mais
- cannella in polvere
- scaglie di cioccolato fondente
- 2 pere
- succo di limone
Preparazione:
Sbucciate e tagliate le pere a fettine sottili e irroratele con del succo di limone .
Unite le farine al cacao ed allo zucchero, mescolate ed aggiungete il bicarbonato. Versate sopra l’aceto di mele. Poi versate l’olio, il latte e mescolate vigorosamente fino a quando il composto non sarà amalgamato.
Versate l’impasto in una tortiera (oliata e infarinata), adagiate le fette di pera e cospargete la torta di pere al cioccolato  con scaglie di cioccolato fondente ed un velo di cannella.
Infornate a 180° per circa 30-40 minuti.


  


lunedì 28 settembre 2015

UN FIORE CHIAMATO AMORE...

Giardini sul mare
“L’amore è un bellissimo fiore, ma bisogna avere il coraggio di coglierlo sull’orlo di un precipizio” - Stendhal

Un solo petalo non fa di un profumo un fiore…
Né l’immagine sfocata di una fonte  può soddisfare la sete…
La realtà è molto più articolata,
l’anima molto più esigente e meritevole…
Tanti fiori profumano, ma uno solo è quello che vale la pena di cogliere anche sfidando il bordo di quel precipizio di Stendhaliana memoria…perché solo quella varietà pregiata di fiore, rara se non unica, può migliorarci come persone, renderci più aperti, più generosi, non più chiusi dentro il guscio del nostro egocentrismo…
quel fiore chiamato Amore può migliorare i nostri cuori, renderlo più profondo, proteso…
non la ricchezza, che lo può rendere più avido,
non la sicurezza, che lo può rendere più pigro,
non la posizione sociale, che lo può rendere più arrogante,
non il prestigio, che lo può rendere più vanesio,
non le cose che ci luccicano intorno, effimere e passeggere, che lo possono rendere più fragile,
solo l’amore, quel soffio di bellezza e leggerezza che ci spinge con sincerità e fiducia tra le braccia, talvolta intricate, della vita…

E per concludere il pensiero del giorno, vi propongo una merenda morbida e golosa…anche una torta può, talvolta, diventare un fiore da offrire con amore…;-)

Ciambella vegana cacao, pere e nocciole


Ingredienti:
- 260 gr di farina di kamutt
- 30 gr di amido di mais
- 35 gr di cacao amaro in polvere
- un pizzico di vaniglia in polvere
- 180 gr di zucchero di canna integrale
- 200 ml di panna di soia (o di latte di cocco)
- 125 ml circa di latte di soia
- 50 ml di olio di mais
- ½ bustina di cremor tartaro
- un pizzico di sale
- 2 pere piccole a cubetti
- cannella in polvere
- qualche nocciola spezzettata per decorare  


Procedimento:
Frullate lo zucchero di canna integrale con la panna di soia e il latte; aggiungete pian piano la farina setacciata, un pizzico di vaniglia in polvere, il cacao e l’amido; versate l’olio, 1 pizzico di sale, la cannella ed infine il lievito e le pere tagliate a cubetti. Se il composto è troppo denso aggiungete altro latte di soia.
Versate il composto in una teglia per ciambella, precedentemente oliata e infarinata, spargere sulla superficie le nocciole spezzettate ed infornate. Cuocete per 30 minuti a 180° e per altri 15 minuti circa a temperatura più bassa (160°)

martedì 21 luglio 2015

SICILIA IN TASCA


Della mia recente vacanza in Sicilia vorrei riuscire a trasmettervi suoni, odori, colori e sapori ma, dato che certi limiti della comunicazione non sono ancora stati superati, posso solo tentare di offrirvi descrizioni sommarie nella speranza di solleticare quel gusto della scoperta che magari vi spingerà, se ancora non l’avete fatto, a partire per una terra che merita di essere scoperta poco alla volta, sempre più in profondità, talmente ricco e suggestivo è il suo bagaglio di offerte.
La Sicilia è una terra selvaggia, selvatica, vergine, senza fronzoli… con le sue “opere incompiute” pare schiaffeggiarti trascinandoti nelle più crude realtà e, poco dopo, è lì ad accarezzarti con la dolcezza delle sue granite e delle sue “brioche con il tuppo”.

Girandola, pare di immergersi dentro un quadro impressionista o tra le pagine dure e vere di verghiana memoria.
In sette giorni ho riempito gli occhi di panorami mozzafiato.

Ho iniziato prendendo confidenza con le acque cristalline e le spiagge di ghiaia fine di Roccalumera per poi restare affascinata dalla raffinata eleganza di Taormina. Qui mi sono tuffata nella storia con la visita all’antico teatro greco: un teatro affacciato sul mare, con suggestioni ed echi di un antico splendore che escono da ogni sua più piccola pietra.

Un arancino delizioso agli spinaci presso lo “Strit Fud” e il più goloso cannolo mai assaggiato alla Pasticceria del corso è stato il bottino alimentare della giornata a Taormina. 

Mentre per il reparto “profumi e balocchi” non potevo non cedere all’aroma agrumato e selvaggio della sua acqua profumata. Ogni spruzzo di quel profumo mi riporterà con la memoria al centro di quella piazzetta pavimentata a scacchi bianchi e neri e affacciata sul mare. Da quella piazzetta, dove tra l’altro c’è un bar ricco di storia dove Goethe passava il tempo a bere il suo caffè, si può ammirare la costa del Mar Ionio, la Baia di Naxos e il possente Vulcano Etna.

Nei vicoli si susseguono botteghe, ristoranti con vedute panoramiche, locali da dove provengono svariati sottofondi musicali, da quelli melodici a quelli in chiave jazzistica. Può capitare di ascoltare le note semplici di un anonimo artista di strada o quelle più colte delle ballate liriche, spesso in programma nel cartellone del teatro antico.



Scendendo da Taormina con la funivia mi sono fermata per un bagno presso l’Isola bella, famosissimo e suggestivo isolotto, ricoperto da una rigogliosa vegetazione e istituito a riserva naturale. La lingua che collega la spiaggia di Mazzarò all’isola (che dall’alto pare di sabbia ma che in realtà è di ghiaia) è un invito a tuffarsi nell’acqua cristallina.



A Catania, appena arrivata, mi sono immersa nella realtà caotica, ma affascinante dei mercati popolari: gente che ti vuole far assaggiare “la qualunque”, che ti mette in mano una cozza spruzzata di limone e pare voglia farti uscire dalla bambagia per svezzarti con la legge dell’adattamento.

Girando per la città ho vissuto i forti contrasti di una città che ho associato per alcuni aspetti a Napoli e per altri a Lecce. La compostezza di alcune zone, come quelle adiacenti il rigoglioso giardino Bellini e la zona universitaria si scontra con l’aspetto aggressivo di molte costruzioni periferiche, nate dal nero della pietra lavica e in molti casi non ultimate e la desolazione di certe spiagge che l’incuria umana ha reso degli immondezzai all’aperto.






Sulla città di Catania domina, assoluto, l’Etna. Spesso l’afa non ne rende visibili completamente i profili, ma vi assicuro che anche i contorni appena accennati sono in grado di suscitare un misto di timore e riverenza, come quello che si proverebbe davanti ad un mostro addormentato sulla montagna, dal duplice fare minaccioso e protettivo.

C’è stata anche la visita a qualche set cinematografico di tutto rispetto, come quello al piccolo borgo di Savoca, arroccato su un crinale a 300 metri di altitudine dove, in piazzetta, ho potuto gustare una deliziosa granita al limone (con tanto di biscottino ai semi di sesamo) presso il Bar Vitelli dove furono girate alcune scene della saga cult de “Il padrino” e che ancora oggi trasmette ab libitum la colonna sonora del film che lo ha reso celebre in tutto il mondo.

E poi come scordare gli scorci offerti da Tindari? Famosa per il suo Santuario con la Madonna nera, situato sulla cima più alta del paese a strapiombo sul mare, è una località suggestiva anche per le sue lingue di sabbia situate alla base del promontorio, alcune delle quali raggiungibili solo via mare.

Proprio in quelle acque mi sono donata la nuotata più bella e più lunga: intorno a me solo acqua trasparente, spiagge incontaminate, il suono delle onde e, citando i versi di una canzone di Irene Grandi, “la voglia di non tornare più” (a riva…aggiungo io).

Dopo la nuotata, tappa d’obbligo al Bar del Pellegrino: arancino al pistacchio, specialità del posto, accompagnato come sempre dal sorriso aperto e dalla cortesia del personale. Le persone con le quali mi sono trovata ad interagire (in albergo, nei bar, nei ristoranti, all’interno dei siti archeologici, ecc.) si sono mostrate sempre disponibili a fornire chicche e curiosità sulla loro terra. La voce di chi vive i posti vale molto di più di qualunque altra voce enciclopedica.



Da ultimo, come in un quadro emozionale posso tentare di sfumare i colori di alcune esperienze fatte tra una gita e l’altra: l’energia mattutina che mi spingeva a correre lungo il mare di Roccalumera, quando la linea dell’orizzonte pare riconciliare ogni pensiero con la realtà; 

la commozione provata durante la visita al Parco Letterario dedicato a Salvatore Quasimodo dove un ragazzino sveglio ed appassionato ci ha condotto alla scoperta degli aspetti più interessanti della biografia dello scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1959;

il fanciullesco entusiasmo nel fare incursione nei bar sul lungomare di Santa Teresa di Riva per assaggiare quanti più gusti possibili di granite (…a proposito eleggo quella al pistacchio la mia preferita…ma se la batte alla grande con quella alla mandorla e con quella al caffè…). In verità, si potrebbe dire che c’è la granita giusta per ogni momento della giornata.


E ancora l’impegno degli animatori per cercare di pungolare la pigrizia del “turista spiaggiato”, la magia dei tramonti da gustare dopo la calura del giorno, il fascino di un cielo che lontano dalle luci cittadine, si può scoprire magnificamente stellato. 

Un quadro che si può ammirare soprattutto in vacanza quando, lontani dal tran tran e resi centrati dalla mancanza dell’altro a cui pensare, ci si può concentrare su ciò che, in realtà, conta davvero: la natura che ci vive attorno, il cielo sopra le nostre teste, il tempo che scandisce le nostre vite, ovunque siamo e qualunque cosa stiamo facendo. Il viaggio serve, o dovrebbe servire, anche a questo: ritrovare il senso del nostro Tempo.

Scusate se per accompagnare questo post oggi vi propongo solo un piatto di frutta fresca…ma è estate, fa caldo, c’è il mare, la piscina, i tuffi e la tintarella nel menù quotidiano di molti di noi. E allora, ogni tanto, si possono anche spegnere i fornelli o no??! ;-)



  
SCHERZO!!!!!
Quando la temperatura sale, possiamo semplicemente scegliere di ridurre al minimo gli ingredienti e i passaggi in cucina. E allora cosa c’è di meglio di un piattino di pasta di grano saraceno condito con del pachino fresco e una spolverata di origano?
Del resto, anche il sapore di questo piatto ha un vago retrogusto di Sicilia…;-)


Ingredienti
-       pasta di grano saraceno
-       pomodori pachino
-       olio evo, sale, origano

Mentre cuoce la pasta, fate saltare i pomodori pachino tagliati a spicchi in un po’ di olio, una spolverata di sale e origano.
Condire la pasta con il sughetto di pomodoro. Semplicissimo. A prova di calore.

Ciao Sicilia, alla prossima vacanza....


e a voi: