mercoledì 27 febbraio 2013

SOTTO LE SUPERFICI C'E'.... IL RISPETTO....


Ci sono persone che nascondono sotto uno strato di superficiale dolcezza delle forti asperità o, viceversa, quelle che rivelano un’inaspettata dolcezza, una volta tolte quelle vesti che si sono cucite addosso (per reazione o per dna) con filati di durezza e acidità.
Il punto è che se non si ha voglia, il coraggio o la tenacia di andare oltre la superficie, si rimane a mezz’aria, a mezza conoscenza. Come appoggiare il cucchiaino sulla crema del tiramisù, senza poi immergerlo più a fondo per godere anche del biscotto: ne gusteremmo solo una parte.
Però nei rapporti con gli altri non si possono forzare gli atteggiamenti nè i cambi di rotta.
Ognuno ha i suoi tempi, il suo cammino.
Ognuno sa quando e con chi mostrare il suo vero volto.
E a volte, può anche capitare che sotto il vestito non ci sia in realtà ciò che ci aspetteremmo.
Il rispetto prima di tutto.
Per gli altri...e in primis per se stessi: affannarsi per cambiare il carattere di chi ci circonda, per plasmarlo a nostro piacimento, non è un gesto di rispetto nei confronti della propria intelligenza. Non dobbiamo piacere a tutti, e non ci debbono piacere tutti. Ma quello che vale sempre la pena coltivare è il rispetto, quello è sano e sacrosanto. Quello che ti porta a dare consigli agli amici, ma a non giudicarli se poi non li seguono.
Quello che ti porta ad accettare i difetti (inevitabili) delle persone a cui vogliamo bene, senza dichiarare loro ogni volta una guerra ad hoc. Quello che non ti fa infervorare in maniera aggressiva se il vicino di casa vota un partito diverso dal tuo o prega un Dio diverso dal tuo (o non prega affatto), quello che non ti fa storcere il naso se gli altri hanno gusti, opinioni, passioni, desideri diversi dai tuoi.
Il rispetto è la chiave che apre confini di conoscenza più ampi in confronto al limitato panorama che vorremmo vedere affacciandoci sempre alla stessa finestra. Quello scenario sarebbe sì rassicurante, ma non sarebbe reale. Non conosceremmo mai la realtà nella sua complessità, ma solo l’idea che ci farebbe comodo perseguire. La realtà esige uno sguardo più curioso, più rispettoso, più coraggioso per poter essere penetrata e per renderci ad essa “presenti”.
E per riagganciarmi al tema del dolce/aspro....vi propongo un dessert molto fresco, come un assaggio anticipato di un soffio primaverile.


SORBETTI AL LIMONE (senza uova, latte o panna)

Ingredienti:
- acqua, 500 ml
- zucchero, 200 gr
- succo di limone, 150 ml
- buccia di 1 limone (meglio non trattato)
- un limone grosso (da usare come coppette)

Grattuggiate il limone ben pulito, evitando la parte bianca (che darebbe un gusto amaragnolo).
Prendete un pentolino, versarvi l'acqua e lo zucchero e mettete a cuocere finché quest'ultimo non si sarà sciolto completamente. Aggiungete la scorza e il succo di limone e mescolate bene.
Togliete la pentola dal fuoco e riversate il contenuto all'interno di mezzi limoni svuotati (che fungeranno da coppetta).
Lasciate solidificare in freezer per un’intera notte (o almeno 4/6 ore).


giovedì 14 febbraio 2013

DAL PIATTO...AL PENTAGRAMMA....

E se “Sanremo è sempre Sanremo”, una come me, appassionata di musica e che ama recensire un pò di tutto, dai film ai libri alle ricette passando per alberghi, ristoranti, look e tendenze,  come fa ad esonerarsi dal commentare il mitico carrozzone della musica italiana, per una settimana accampato al teatro Ariston, che stravolge i palinsesti di emittenti radiofoniche e televisive italiane, offrendo chiacchiera a giornalisti, ospiti tv e critici di ogni genere e tipologia? Personalmente non mi rispecchio nei giudizi tipici (o potrei chiamarli pregiudizi?) dei detrattori radical chic, ma, pur seguendolo (perchè sono interessata alle canzoni, ai progetti musicali presentati in anteprima da chi vi partecipa) non osanno neppure quello che gravita attorno ad un evento a cui spesso, riconosco, viene dato più risalto (e risorse) del dovuto.    
Utilizzo lo schema di valutazione che ho utilizzato anche l’anno scorso, perchè poi gli ingredienti sono sempre quelli...per fortuna, però, ogni anno, la pietanza che ne viene fuori ha sempre un gusto diverso.
Quest’anno, secondo la mia personale opinione, il Festival ha il gusto fresco e frizzante delle cose nuove, dei toni leggeri, ironici, non celebrativi e mai (finora) esagerati.
La cornice:…non male, anche se non ho ancora capito bene cosa rappresentano i pannelli marroncini messi attorno e dietro il palco. Sono tele, compensati, tendoni etnici? Confesso di non aver capito la metafora o l’idea di fondo che ha guidato la scelta scenografica.
I presentatori: la verve della Littizzetto che dissacra, sdrammatizza è ineguagliabile. Fa apparire tutto meno ingessato, meno compìto. Dopotutto è un varietà, una semplice gara di canzoni, mica l’elezione per i premi Nobel della fisica! Ci sta un modus vivendi che sia leggero e non serioso.
Gli artisti e le loro canzoni: Modà (Se si potesse non morire): sono di parte perchè il gruppo mi piace, lo dico subito, comunque il testo è un inno alle cose che viviamo nel quotidiano, da apprezzare ancora di più per il fatto che non si può appunto non morire e quindi non ci sono cose da dare per scontate; Simone Cristicchi (La prima volta che sono morto): tema analogo, suscitato da una morte improvvisa, raccontata, nel classico stile di Cristicchi, dallo stesso defunto; testo forse un pò macabro, ma se lo si penetra in profondità, è apprezzabile per l’intenzione implicita. Prevedo un possibile premio della critica; Malika Ayane (E se poi): la sua voce particolare ben si coniuga con le atmosfere raffinate e vellutate che Giuliano Sangiorgi, che ha firmato il suo pezzo, sa sempre tradurre in parole; Almamegretta (Mamma non lo sa), un gruppo che pone sempre grandi temi sociali al centro della sua musica e della sua evoluzione, in questo caso un testo impegnativo che parla di globalizzazione che richiede sicuramente un ascolto ripetuto per poter “arrivare”; Max Gazzè (Sotto casa), un giocoliere della composizione, un testo ironico e movimentato per cantare il rispetto tra fedi religiose; Annalisa (Scintille): una canzone che è un continuo flashback di immagini e suggestioni, da quelle ingenue dell’infanzia a quelle intense e passionali riversate in una storia d’amore; Elio e le storie tese (La canzone mononota): geniali, beffardi, canzonatori, sanno rendere intensa e coinvolgente anche il disquisire su di una semplice, unica nota musicale; Marco Mengoni (L’essenziale): il testo mi è piaciuto e della sua interpretazione ho apprezzato il fatto che non abbia “strafatto”, non abbia ecceduto nelle sue architetture vocali che in genere poi mi distraggono dal contenuto; Raphael Gualazzi (Sai ci basta un sogno): il mio preferito, un testo denso di vibrazione, tensione emotiva e fantasia musicale per un artista completo che scrive, canta, suona, e fa tutto con grande talento, umiltà e autenticità; Daniele Silvestri (A bocca chiusa): un testo che mi ha colpito subito per l’immediatezza del messaggio, il coraggio nel proporre un inno alle diverse forme di protesta sociale, inclusa la libertà di espressione e di parola di un artista, con il valore aggiunto dell’accompagnamento di Renato Vicini, un interprete della lingua italiana dei segni;  Simona Molinari e Peter Cincotti (La felicità): un duo dotato di grande presenza scenica, la Molinari riesce con la sua voce pulita, fresca eppure un pò retrò a creare atmosfere swing e raffinate, con questo testo che è una sorta di evocazione, priva però di qualsiasi amarezza, di una felicità perduta; Marta sui tubi (Vorrei): ok loro incarnano la novità, l’affaccio del Festival sul mondo della produzione discografica indipendente, e questo è senz’altro apprezzabile, ma il testo lo devo ancora metabolizzare, forse un tantino sovrastato dalla potenza della sua parte strumentale; Maria Nazionale (E’ colpa mia): sound etnico per la cantante napoletana che si presenta con un testo scritto dagli Avion Travel, personalmente non è il tipo di vocalità in grado di emozionarmi; Chiara Galiazzo (Il futuro che sarà): un sound latino, un tango sopra un testo visionario, immaginifico, scritto da Francesco Bianconi dei Baustelle e interpretato con semplicità ed intensità. La voce di Chiara è una voce pura, non arzigogolata, immediata, eppure calda e matura.

...vedremo sabato chi trionferà...intanto tra una canzone e l’altra....vi propongo un antipasto, veloce e sfizioso: pomodorini pachino riempiti di patè al tonno (lo ottenete semplicemente frullando tonno, formaggio cremoso, un filo d’olio e un pò di limone) accompagnati da fettine tostate.


Ok questa volta poca laboriosità, ma del resto....c’è da seguire Sanremo.....;-)) e poi, con buona pace di quegli chef un pò intellettualoidi, ogni tanto possiamo anche concederci delle facili vie di fuga, non pensate?...(sapete quanto io apprezzi cucinare e soprattutto le ricette genuine, anche impegnative da preparare, ma sono ancora del parere che qualsiasi atteggiamento estremista sia una forma di chiusura che, io personalmente, non voglio praticare....).
Buona musica a tutti....:)


martedì 12 febbraio 2013

"LA MIGLIORE OFFERTA" di oggi non è un piatto ma un film....



E’ difficile commentare un film evitando di svelare particolari che rovinerebbero la visione di chi magari quel film non l’ha ancora visto, soprattutto quando è dall’epilogo finale che dipende fondamentalmente la soddisfazione o meno nell’averlo visto.  
Ci provo con “La migliore offerta”, di Giuseppe Tornatore, nelle sale già dal 1° gennaio e che ha riscosso un notevole successo di pubblico e critica.
Vorrei innanzitutto sottolineare quelli che, secondo me, sono i punti di forza di questo film: 1) eccellente interpretazione dell’attore protagonista, Geoffrey Rush, intenso, complesso, camaleontico, capace di incarnare attraverso i suoi gesti e le sue espressioni l’evoluzione di un uomo maturo, eppure ancora vergine nei confronti delle dinamiche sentimentali; 2) una regia precisa, maestosa, rigorosa, elegante ed un ritmo narrativo teso e vibrante come solo i migliori thriller psicologici riescono a sostenere e che fanno trascorrere due ore davanti allo schermo, senza accorgersi dello scorrere del tempo; 3) musiche composte da Ennio Morricone, un nome, una garanzia nella capacità di riempire di suspence emotiva le sue composizioni; 4) la suggestione degli ambienti, senza tempo e senza luogo, quasi a porre in primo piano le variabili emotive e la soggettività dei punti di vista, rispetto alle coordinate oggettive; 5) una struttura originale e mai banale, in molte sequenze la costruzione della vicenda potrebbe sembrare un tantino confusa e/o lacunosa, e forse lo è; ma io considero questa mancanza di pezzi del puzzle una licenza autoriale e registica di chi sa dove vuole condurre lo spettatore e quello è il suo obiettivo, prioritario rispetto alla rivelazione di dettagli, minuzie, prioritario rispetto alla stessa eventuale credibilità della vicenda. Ho letto molte recensioni in cui il meccanismo del racconto viene giudicato fin troppo congegnato, tanto da renderlo artificioso e falso. Il mio unico disappunto invece non è legato alla vicenda, che secondo me è sapientemente messa in scena, ma dal fatto che come spettatrice, la mia aspettativa nei confronti del messaggio implicito che mi sembrava potesse essere trasmesso dal film, è andata tradita. Ma questo è un “problema” mio; l’aspettativa è attendersi un qualcosa creato, a torto o a ragione, per convinzione o bisogno, dalla propria mente. Lo scopo di un regista, invece, non credo sia quello di rispondere alle aspirazioni filosofiche di chi guarda una sua opera. E quindi, con buona pace del mio idealismo, assolvo la scelta di spostare il punto di vista e di girare, inaspettatamente e anche in un verso antiorario, se occorre, la chiave di lettura di una vicenda: da ciò che avviene nell’animo del protagonista (lo sgretolamento dei suoi limiti, l’arrendevolezza dei suoi sensi, l’accettazione della sua vulnerabilità) si passa ad una vicenda più materiale e di crudo realismo, dipinta nell’ambiente stesso in cui egli si trova ad operare.
Ad un certo punto ho vacillato, accorgendomi che pian piano l’evoluzione esistenziale del protagonista non mi avrebbe portato dove, da sola, mi stavo conducendo; mi sono chiesta se forse stavo male interpretando gli indizi che il regista ha disseminato qua e là. Virgin è un uomo ricco, misogino, perfezionista ai limiti della maniacalità, eccellente come battitore di aste, ma un disastro nei rapporti interpersonali, un uomo che pone tra lui e gli altri una barriera, metaforizzata dai guanti di pelle con i quali usa proteggersi le mani da qualsiasi contatto con l’esterno, uno che ama le donne solo come immagine, come soggetti di quadri di cui potersi circondare, senza correre rischi, senza provare emozioni, se non quelle esteriori e di superficie (“"L'ammirazione che provo per le donne è pari al timore che ho di conoscerle" confessa Virgin). Ad un certo punto un uomo così ostile, rigido, s’imbatte in Claire, una giovane ragazza, misteriosa ed affascinante che lo porta, lentamente e inesorabilmente, nonostante qualche iniziale e reiterata resistenza, a sperimentare una trasformazione dei sensi, ad accorgersi di quanto siano fragili le costruzioni della mente rispetto alla forza impetuosa di un cuore risvegliato. Come lui, anche Claire attua un distacco dal mondo; in lei ciò si manifesta in una patologia che non le consente di uscire dalla sua camera. Gli spazi aperti e il possibile contatto con la gente le causerebbe attacchi di panico. Virgin è attirato da lei in un vortice esistenziale. In quell’incontro pare scorgere una grande opportunità: la possibilità di fungere da salvatore di una donna fragile (in fondo fragile come lui) e allo stesso tempo salvare sè stesso da quell’approccio freddo e impermeabile ai rapporti che lo ha reso un uomo solo. Questo è ciò che restituisce autenticità alla vita controllata e condizionata di due persone che il destino ha fatto incontrare ed è ciò che facilita la comprensione e l’interpretazione dello spettatore che si sente premiato dall’aver riposto fiducia in una possibile chiave di svolta esistenziale. Ma da un film ambientato nel mondo delle opere d’arte e dell’antiquariato, dove gravitano soldi, talento, ambizioni e desideri di riscatto (dall’anonimato o dalla mediocrità) è più giusto aspettarsi un messaggio di autenticità o la rappresentazione di un falso d’autore? E se è vero, come cita lo stesso Virgin, che “in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di vero” non sarà allora facile dare un’interpretazione univoca ai segnali e alle percezioni. A voi la scoperta.  



 



martedì 5 febbraio 2013

UNA VISIONE OLISTICA...


L’approccio olistico alla persona è un approccio completo, che tiene conto di ciò che siamo, nella nostra complessità: organi, emozioni, vissuto, abitudini, costituzione, eccetera. Di tutte queste variabili tiene conto un buon medico olistico. Egli non si limita al sintomo, ma cerca di andare più a fondo, svolgendo un’indagine a tutto tondo sulla persona, non limitandosi al suo disturbo o alla sua malattia.
Una persona è qualcosa di più del suo semplice corpo fisico ( insieme di organi, arti, muscoli, tendini). Le emozioni che prova, le abitudini che coltiva, le sue condizioni di partenza hanno necessariamente un riflesso sullo stato di salute del suo corpo, fisico, mentale e spirituale.
Al di là della disciplina medica, anche l’approccio alle cose che ci succedono può essere di tipo olistico. In che modo? Cercando di allargare sempre il nostro sguardo, non limitandosi ad osservare il particolare ma, come dice il termine stesso, “la totalità”.
Ogni esperienza ci può rivelare qualcosa di più su di noi, sul nostro essere, se saremo in grado di penetrarla al di là di un’analisi di mera superficie.  
Anche lo sforzo di trovare soluzioni naturali a disturbi fisici temporanei, può rientrare in un tipo di atteggiamento olistico, rispettoso della natura e quindi della persona.
Si tratta di sviluppare uno stato di coscienza più vivo ed evoluto che ci porti a considerare un corpo sano non come obiettivo finale da raggiungere, e quindi come un qualcosa di astratto, ma come un qualcosa da coltivare da subito, nella realtà di ogni nostro giorno e nell’immediatezza di ogni nostro singolo gesto concreto.
La natura ci offre (quasi) sempre tutto ciò che serve per mantenere il nostro organismo sano e in forma (ovviamente, come spesso tengo a precisare, mi riferisco a “situazioni di partenza” buone; non mi permetto di interloquire circa quelle in cui sono presenti patologie o disturbi specifici). Spesso però, pur in presenza di uno stato di partenza tutto sommato “positivo”, magari in un momento di aumentato fabbisogno di sostanze nutritive (per es. vitamine o minerali) o a scopo di prevenzione, è facile sentirsi prescrivere o consigliare integratori che, per quanto utili siano in molti casi, in altri sono ben sostituibili con ciò che possiamo trovare, anzichè in un reparto farmaceutico o parafarmaceutico, in un semplice reparto di frutta e verdura (meglio ancora se ne conosciamo la provenienza o abbiamo la fortuna di avere un fruttivendolo di fiducia che ci sappia consigliare in base alla stagionalità dei prodotti).
Il radicchio, per esempio, per anticiparvi quella che è la ricetta di oggi, è un ortaggio con un buon apporto di vitamine e minerali, soprattutto ferro, calcio e fosforo, e ha proprietà depurative, diuretiche, toniche e blandamente lassative. Quello rosso deve il suo colore agli antociani, preziosi polifenoli dalle proprietà antinfiammatorie, antiallergiche ed antivirali che aiutano a mantenere in salute i vasi sanguigni, a loro volta implicati nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.

INSALATA DI RADICCHIO ROSSO NEL CESTINO DI PANE
Ingredienti:

-       radicchio rosso
-       olio, sale, aceto balsamico
-       parmigiano a scaglie
-       noci
-       semini misti (girasole, zucca, etc.)
-       cestino di pane (farina, acqua, un pizzico di sale)


Per preparare un cestino di pane, basta impastare farina, acqua e un pizzico di sale (regolatevi con le quantità in modo da ottenere una palla omogenea ed elastica. Per quello in foto ho usato circa 150 gr di farina e 100 ml di acqua). Tirate poi una sfoglia abbastanza sottile (come una piadina) con il mattarello, poggiate la sfoglia in una ciotola capovolta (che possa andare in forno) e infornate a 200° per circa 15/20 minuti. Sfornate, ribaltate il cestino e lasciate raffreddare.
Lavate il radicchio; tagliatelo a striscioline, aggiungete scaglie di parmigiano, noci spezzettate  e una manciata di semini. Condite con un filo d’olio, sale e aceto balsamico.
Servitelo nel cestino di pane. Buono il contenitore, e anche il suo contenuto :-))